Il gioco del Kemari

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Il gioco tradizionale del Kemari – santuario Tanzan a Nara
(radBeattie at English Wikipedia, CC BY-SA 3.0 , attraverso Wikimedia Commons)

C’è una teoria, piuttosto fantasiosa, che afferma che il moderno gioco del calcio sia stato introdotto in Europa da Marco Polo; durante il suo viaggio in Asia, nel XIII secolo, avrebbe avuto il privilegio di assistere al gioco giapponese del Kemari: ne sarebbe stato affascinato e l’avrebbe poi portato in Europa dove divenne l’antenato del calcio.
Non c’è certezza sulla data di nascita di questo sport in Giappone. Secondo il Nihon Shoki – testo scritto nell’VIII secolo e fondamentale per lo studio della Storia remota del Giappone – il gioco apparve nel 644 d.C., durante il periodo Yamato. Come tutti gli altri elementi della cultura arcaica giapponese, venne importato dalla Cina anche se molti studiosi fanno notare che il gioco del Kemari è sostanzialmente diverso dal cinese Cuju, da cui deriverebbe.

Il momento di maggiore diffusione del Kemari lo si ebbe durante il periodo Heian (IX – XII secolo). Sovrani, imperatori in pensione e alti dignitari prendevano parte, o assistevano, alle partite. Era uno sport che veniva essenzialmente giocato nell’ambiente della corte imperiale e della nobiltà. Tranne qualche sporadico accenno nella letteratura del periodo, non sembra che le donne prendessero parte alle partite. Come il Kemari mise radici, il campo da gioco, l’equipaggiamento, le tecniche, la divisa vennero standardizzati. Dalla seconda metà del XIII secolo le regole del gioco furono codificate in vari trattati. Sembra che fosse più un’attività secolare, piuttosto che religiosa. Nonostante ciò, un testo del 1593 ci informa che in un’occasione, nel 1215, il Kemari venne giocato per invocare la pioggia in un periodo di siccità. Di tanto in tanto veniva anche giocato per scacciare la sfortuna. Ma, comunque, la funzione principale del Kemari era quella di divertire i giocatori e gli spettatori.

KemariEra giocato all’esterno, su un campo di 6-7 metri per lato. Il campo era delimitato, ai quattro angoli, da alberi di altrettante specie diverse: un ciliegio, un salice, uno pino ed un acero. A volte veniva usato anche il susino. Gli alberi non erano solamente elementi decorativi, ma avevano il loro importante ruolo; ogni determinato albero era destinato ad un particolare angolo del campo. Poichè spesso i palloni andavano ad impigliarsi fra i rami di questi alberi, questi dovevano essere potati in modo tale da favorire la ricaduta del pallone. Una buona potatura era quella che riusciva a creare un interessante percorso di uscita per la sfera di gioco. Il pallone, fatto di pelle di cervo, era cavo; aveva un diametro di circa 20 centimetri e pesava di 100 ai 120 grammi. Siccome facilmente i palloni scoppiavano durante il gioco, venivano irrobustiti con un rivestimento di albume o di colla; altro metodo era l’affumicatura del pallone. La tenuta di gioco, originariamente, era costituita da un vestito di corte, che poi, dal IX secolo, venne sostituito da una più comoda e funzionale tenuta da caccia; i giocatori indossavano un Suikan di seta abbinato ad un Hakama. Nel XIII secolo fecero la loro comparsa i copricapi neri. Ogni giocatore, attaccato alla cintura, portava un ventaglio che indicava anche il grado all’interno della corte: maggiore era il numero delle stecche del ventaglio e più alto era il rango del giocatore. Infine, per le calzature, venivano usate delle speciali scarpe di pelle allacciate al polpaccio con delle corde.

Stampa KemariAl gioco partecipavano, di solito, otto giocatori – il numero poteva comunque variare da 2 a 12 -, ognuno posizionato su un lato di ciascun albero. Il giocatore di rango più alto, era collocato vicino al pino ed era lui che iniziava la partita passando la palla al giocatore con il rango immediatamente più basso del suo. Una volta iniziata la partita ogni giocatore si poteva muovere liberamente all’interno del campo di gioco salvo poi ritornare alla posizione iniziale quando il gioco subiva una interruzione. Il pallone veniva calciato con il piede destro e, prima di passarlo ad un altro giocatore, si poteva palleggiare più volte. Condizione necessaria era che il pallone non toccasse mai terra, altrimenti il gioco si interrompeva. Un arbitro teneva il conteggio del numero dei passaggi: contava silenziosamente fino a cinquanta per poi annunciare il punteggio ogni dieci calci. Se si verificava qualche colpo particolarmente bello, l’arbitro poteva dare dei punti extra. A volte si metteva dei limiti di punteggio al raggiungimento dei quali la partita veniva interrotta: 100, 300, 360, 1200 e così via.
Secondo alcuni testi antichi, nel 953 d.C. in una partita si raggiunse il punteggio di 520, presumibilmente compresi i bonus. Nel suo diario, l’ex imperatore Gotoba (1180 – 1239), un grande appassionato di questo gioco, annotò di aver partecipato, nel 1204, ad una partita in cui fu raggiunto il punteggio di 980 e, in un secondo tentativo della stessa partita, addirittura i 2000 punti. In una partita singola non c’erano nè vinti e nè vincitori, ma potevano essere organizzati degli incontri fra squadre di otto giocatori; ogni squadra aveva a disposizione un certo numero di tentativi e vinceva chi, in un singolo tentativo, raggiungeva il punteggio più alto.
Come accennato il numero dei calci al pallone dati da un singolo giocatore è libero, ma il numero ideale era di tre tocchi: quello per ricevere la sfera, in palleggio per controllarlo e uno per passare la palla ad un altro giocatore. Curiosamente il primo tocco e il terzo, considerati facili da fare, erano chiamati “calci di donna” (meashi) mentre il secondo, più difficile e ostico, era il “calcio da uomo” (woashi). Ognuno di questi tre calci aveva il suo grido di riconoscimento: al momento di ricevere il pallone, il giocatore ricevente doveva gridare “Ooh !” nei calci intermedi, di controllo doveva esclamare “Ari !”, infine, nel calcio di passaggio ad un compagno, il grido era “Ya !”.
Erano varie le abilità con cui i giocatori potevano essere valutati: velocità e abilità, postura, padronanza della strategia, lealtà sportiva. Un buon giocatore, inoltre, aveva un suo repertorio di colpi che poteva utilizzare durante la partita; agganciare un pallone calciato da notevole distanza o stopparlo con la parte superiore del corpo per poi addomesticarlo con i piedi erano gesti molto apprezzati.
Il periodo migliore per giocare al Kemari era la primavera; le partite iniziavano nel primo pomeriggio per terminare al tramonto. La giornata della partita si divideva in tre parti: una prima parte in cui i giocatori effettuavano il riscaldamento e lanciavano il pallone dentro gli alberi per vedere come ne usciva; nella seconda parte i giocatori mostravano al pubblico le loro personali abilità nell’ultima parte, infine, si svolgeva la partita vera e propria. Quando l’oscurità ormai non permetteva di continuare, il giocatore più bravo chiamava la palla e, dopo un calcio, lo riponeva fra le pieghe del suo kimono decretando così la fine della partita.

Dopo il periodo Heian il gioco del Kemari non cadde certo nell’oblio: venne, anzi, usato anche dalla classe dei militari che lo vedeva come un buon esercizio visto che richiedeva doti di coordinamento, di gioco di squadra oltre che di forza fisica. Il declino vero e proprio arrivò nel Periodo Meiji complici anche gli sport occidentali che fecero presto a dilagare in tutto il Giappone. Nel 1903 l’imperatore Meiji creò una società per la preservazione del gioco del Kemari. Oggigiorno esibizioni di Kemari si possono ammirare durante particolari eventi quali, per esempio, il “Kemari Matsuri“, che si svolge due volte l’anno (29 aprile e 3 novembre) presso il santario shintoista Tanzan a Nara o in occasione dell’apertura annuale al pubblico del Palazzo Imperiale di Kyoto.

Autore : Cristiano Suriani

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